mercoledì 18 giugno 2008

AMSTERDAM 2.0

Sveglia leggera ma ovviamente ci pensa la colazione comandata dalla fame chimica, ad appesantire la situazione; ce ne freghiamo perché tanto, tra poco, un coffee shop ci darà una grossa mano e sarà tutto in discesa.
Dalla piazza della stazione verso il centro storico, il negozio Boudisque, che già adocchiavo un paio di anni fa, occhieggia beffardo dalle saracinesche ancora chiuse: che sia uno specchietto per allodole strafatte come noi che vanno a cercare negozi di dischi ovunque siamo? Noi ce ne battiamo le palle e andiamo al coffee a cercare gli altri. Il locale mi pare fosse il Green House di Leidzeplein ma potrei sbagliare: due sono i ricordi più vividi di quella mattina, 1. il boccone infame della colazione, traditore nel momento in cui una mangiata abbondante dovrebbe venirti in aiuto e 2. un carretto giallo che solo guardarlo da fuori, come ondeggiava, mi faceva girare le pareti dello stomaco.








Dopo l’aperitivo il giro sul battello è d’obbligo, e per farlo siamo intenzionati ad attraversare interi quartieri. Si è stanchi, con l’occhio lucido e il passo stanco con una fiacca micidiale che attanaglia i poveri arti inferiori massacrati il giorno precedente. Comunque siamo tonici: per fare 12 metri impieghiamo circa 30 minuti… il primo bar all’uscita dello shop è attraente e invitante, ci prendiamo un caffè, buono anche. Ci si rimette in moto ma, 3 metri sono davvero troppo per ora quindi la panchina con vista (la stessa del bar, ovviamente!) è l’unica alternativa valida. Un buon quarto d’ora è sufficiente a farci sentire degli eroi lanciati alla salvezza del mondo ma, il fallimento della ormai cosiddetta “Amsterdam 2.0: Operazione Movimento” è dietro l’angolo… Noi ci si prova la terza volta e un bell’angolo da fotografare ci “costringe” a stoppare nuovamente le membra su un gradino, anche perchè apprezzare le fantastiche evoluzioni dei ciclisti che evitano i disgraziati che escono dai coffee shop non ha prezzo. Riescono ad avere un equilibrio formidabile anche se non so si rendono conto del fatto che stanno rischiando la vita. A questo punto Max dice “ma che bella città, non si sente neanche un clacson… “ e forse proprio per questo, di lì a poco un ignaro suicida si becca una strombazzata micidiale sia da un'auto che da un ciclista, roba da far venire un colpo…











Comunque dopo una mezz’ora ci si muove e stavolta sul serio! Si raggiunge il molo di attracco, impieghiamo un po’ a capire qual è quello giusto e i punti cardinali sono ancora un mistero, una corsa la perdiamo. Comunque c’è tanta gente interessante in attesa e si iniziano a scattare istantanee fulminee e geniali, che ritraggono le persone come fossero attori di un fotoromanzo ma ignari del Man With The Camera. Da una barca a motore lucidata a olio di gomito esce un timoniere bello e biondo come il sole che accoglie le vogliose turiste e i loro imbarazzati mariti sul suo natante. Ovviamente è provvisto, sovraccoperta, di scorte fondamentali alla sopravvivenza dell’uomo in mare, e cioè champagne e stuzzichini di ogni genere ma sottocoperta, tira fuori dal cilindro i due prodotti locali di alta tendenza più in voga, e cioè puttane e marijuana .










Il battello però è una delusione: nessuna zoccola ad attenderci a "braccia" aperte, nessun bòlas degno di essere fumato è rollato per noi, nessuno schiavo a stendere il tappeto rosso per i VIP della vacanza. No! Il natante è da gran turismo, cioè turismo di grandi dimensioni, per numeri consistenti di persone. All’inizio ci tocca in piedi, una gran fatica ma l’ipod accorre in soccorso e mi ascolto un blues che sull’acqua acquista un movimento interessante, dato che si tratta del Blues da Laurel Canyon, John Mayall. Una volta trovato posto a sedere io, testa tra le mani, mi addormento o quasi, gli altri non so, ma posso giurare che siamo tutti messi come il culo e per questo il giro in battello acquisisce un sapore mistico, il rollìo sull’acqua ci culla verso remote sponde come le anime portate da Caronte e i pensieri galleggiano lontano, lo sguardo viaggia verso le case alte e strette, dai tetti storti e le finestre larghe, le tegole nere ad incorniciare, come fossero caschi di capelli corvini, quelle che sembrano facce tristi e malinconiche cui il sole, strano attore che approfitta di questi giorni per farsi vivo spavaldo e superbo, dona un’aria meno tetra e spettrale.
Mi risveglio in fretta, qualcuno mi punge il fianco con un gomito; non so chi è, ma capisco che è ora di smontare dal battello per un giro a piedi, e mi sento in forma, se non smagliante sicuramente più di prima. Il quartiere sembra accogliente, le panchine all’ombra di grandi querce invitanti e la gente meno propensa all’insulto o all’omicidio su due ruote: siamo piuttosto lontani dal centro in cui alcuni viaggiatori, avventori dei negozi della felicità, riversano in strada in condizioni poco opportune per mettersi a passeggiare tra la folla indaffarata e frettolosa.

Io cerco di darmi un tono e faccio il pettinato, propongo agli altri di andare a visitare un museo che due anni fa mi fece uscire il cervello dagli occhi (il Van Gogh), dicendo agli altri che sarebbe proprio da vedere. Dopo una mangiata a base di qualcosa di carne (non ricordo cazzo, non ricordo!) il parco vicino al museo fu un’attrazione troppo dura cui resistere, quindi ci siamo sdraiati promettendoci a vicenda che ci saremmo alzati in tempo per la visita a sfondo culturale. Ovviamente ci siamo dimenticati e, siccome io il museo l’avevo già visto e sarebbe comunque rimasto aperto anche di domenica, si propone un coffee shop da raggiungere con il battello. Così ci si riposa anche, siamo stati sdraiati mezzo pomeriggio, non siamo allenati per questo tipo di attività fisica. Nel frattempo Max ci fa notare come “Amsterdam è davvero una bella città e i parchi sono proprio tranquilli, per esempio non c’è nessuno che gioca a pallone… “ in quel preciso momento, una sfera bianca e nera ci sfiora a velocità smodata… incominciamo a dire gentilmente al profeta di fare silenzio, e tenere le preziose considerazioni sulle abitudini degli olandesi di Amsterdam per sé.












Si raggiunge il coffee shop, il vecchio e caro Rokerij di Langestraat che finalmente riesco a trovare sulla mappa. Si tratta di uno dei più belli e interessanti di Amsterdam, primo perché serve dell’ottima erba di qualità fantastica (provare la loro Shiva o la White Shark per credere), secondo perché il posto è praticamente un cunicolo abbastanza grande di forma rettangolare, scavato all’interno di uno stabile, va leggermente in discesa e se si entra in stato abbastanza confusionale; l’impressione potrebbe essere quella di una discesa agli inferi, forse le grafiche etniche e tribali aiutano l’immaginario della fattanza... Comunque ce ne andiamo quasi subito perché la musica, per l’orario e il tipo di locale, è troppo alta e inadatta.
Si va a cena in una steakhouse e ci si ammazza di bistecche e baked potato, salse varie e chili, nachos, birra e acqua. All’uscita ci fondiamo nuovamente in un coffe shop, di nuovo l’Abraxas perché pare ci sia una festa da quelle parti. Quando si arriva un po’ di gente c’è… ma non so se stiano festeggiando perché sono felici o perché hanno acceso un sacco di “candele”… noi per non sapere leggere né scrivere, ci uniamo ai festeggiamenti e facciamo del nostro meglio per: 1. darci un tono e 2. essere all’altezza della situazione. Insomma ci sfasciamo a dovere e verso l’una ne usciamo in condizioni aliene. Ci si augura la buonanotte, Bruno e io si vaga per lidi estranei e si finisce in bellezza davanti ad una media, seduti in un pub vista piazza.

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