martedì 11 aprile 2006

Gallina vecchia = brodaglia eccellente! (JETHRO TULL)

La musica va a periodi, più o meno come la vita. In questo periodo sto vivendo il momento delle riscoperte del passato (o delle nostalgie musicali, se vogliamo fare i romanticoni).
Per tutta la giornata di oggi ho avuto tra le orecchie le incalzanti e beffarde note di un magnifico lavoro artistico di una band che non è ancora deceduta e che difficilmente si toglierà dalle scatole: Jethro Tull (nome preso da un agronomo inglese del Seicento). Il lavoro di cui scrivo è stato chiamato “Aqualung” ed è targato 1971. Si tratta di una vera figata in cui negli anni ’70 non era difficile incespicare
Il nome del disco è lo stesso della prima traccia e la copertina, raffigurante un clochard –un accattone, un barbone– paurosamente somigliante a Ian Anderson (leader del gruppo e principale compositore, flautista, pianista e cantante) è una delle più famose e riconoscibili del panorama rock inglese. Aqualung può significare –in questo contesto– autorespiratore, ed è motivato dal fatto che Ian Anderson una volta rimase impressionato dal rumore sibilante del respiro di un barbone incontrato per strada. A differenza di quanti sostennero, in passato, che il disco è un album incentrato sulla persona del leader della band in verità il lavoro di concept è sulla religione: se ne parla in termini di mezzo di controllo sociale, redenzione dello spirito, rapporto con l’onnipotente, seghe mentali che ci si fa pensando al divino e mille altre cose molto interessanti. In effetti la personalità spiccata dei cinque musicisti non è molto da meno, presentandosi agli spettacoli (ancora oggi) con costumi del Settecento inglese (o quantomeno stravaganti) e inscenando commedie teatrali durante le esibizioni. Molto più interessante è la musica però, che sin dalla prima traccia ci fa capire come il sound rock/blues, stravolto da brevi arrangiamenti jazz e progressive (soprattutto progressive), resti solo un ricordo. Verranno intensificati e armonizzati con il concetto musicale del disco verso la metà, aumentando e confermando la sensazione secondo cui Ian Anderson sia sempre stato un grande compositore di musica elegante e raffinata, terribilmente accattivante e orecchiabile al limite del commerciale senza mai diventarlo. E’ espressione dell’elevata cultura musicale e spiccata cifra stilistica della band tutta. Per l’intero disco vagabondaggi in territori folk rock e strumentali acustici alzano ancora di più il livello delle composizioni. La apripista “Aqualung” con i suoi alti e bassi, lenti e veloci, è incalzante e sfodera energia nello splendido, breve, melodico ed efficacissimo solo di chitarra. E’ un tributo alla vita dei clochard, un caldo saluto a tutti quelli che vivono al freddo d’inverno e all’arsura estiva, sotto le stelle e sotto la pioggia, sdraiati su panchine o vicino ai bagni delle stazioni. Difficile capire cosa c’entrino i barboni con la religione tema portante del disco, ma c’entrano. “My God” è uno dei picchi musicali che Ian Anderson ci regala. Al di là delle preferenze personali di chi non vuole nella musica rock flauti e pianoforti, in tutto il disco i punti di forza sono invero questi due strumenti. Proprio il flauto è il principale “parlatore”, con Ian Anderson che soffia, parla, lancia messaggi e urla nel flauto facendo vibrare anche noi che ascoltiamo. “Hymn43” e “Locomotive Breath” sono invece dei veri e propri cavalli di battaglia live. Avendo avuto l’enorme fortuna di assistere ad un loro spettacoloso spettacolo in chiusura del Pistoia Blues 1999 posso confermare, anche senza alogena puntata in faccia e pistola alla tempia, che trattasi di pezzi che in esibizione live diventano irraggiungibili. In effetti molte delle band odierne dell’età dei Jethro Tull hanno parecchie difficoltà a trascinare il pubblico come fanno loro, Deep Purple compresi (visti anche loro al Pistoia Blues ’99, ma niente da fare contro i JT). Incomincio a credere che sia una delle formazioni invecchiate meglio, nonostante i lavori dagli anni ’80 in poi non siano assolutamente paragonabili ai complessi e magnifici “strumentalismi” che negli anni ’70 i Jethro Tull erano in grado di proporci. Però volevo spendere due righe su “Locomotive Breath” –qua è facile perdere il filo perdio… (tanto per rimanere in tema)– ecco: il piano introduttivo che in un crescendo molto emozionante alternato alla chitarra blues di Martin Barre (dal disco “Stand Up” del 1969 ormai fisso nei JT e alter ego di Ian) porta ad un incalzante ritmo in pieno stile progressive rock, crea un bell’amalgama che si trasforma in un affronto verso Ian Anderson. Lui si incazza parecchio e si piazza al flauto, sprigionando un’energia incredibile e trascinante, finendo per esaltare l’ascoltatore con un solo memorabile, condito di versi, sbeffeggi, risate e singhiozzi. Da ovazione da stadio e lacrime agli occhi. Esistono diverse versioni, riprodotte da formazioni heavy metal (e senza flauto), prima fra tutte la molto valida interpretazione dei teutonici Helloween, segno che i Jethro Tull hanno interessato e coinvolto molte sponde musicali.
Per molti è il capolavoro della band (me compreso), per molti altri questo posto lo occupano perle di assoluta raffinatezza come “Thick As A Brick” del 1972, la magnus opus di due brani da oltre venti minuti l’uno, o “A Passion Play” del 1973, forse il più progressivo ed estroverso tra le composizioni di Anderson.
Andando oltre le considerazioni personali e i gusti musicali, resta un fatto: da questo disco in poi si è cominciato a sentire in giro il termine “hard folk progressivo”. E non è che suoni proprio malissimo. Complimenti, Mr. Anderson

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